Codes, Matrix and false truths
by Marinella Paderni


we are not at home in
the Interpreted world
Elegie Duinesi, R.M. Rilke


Maybe …A small affirmation which, like a whisper, introduces doubt, debate, opening the mind to new realities. An enigmatic word which ratifies the ending of a certainty and justifies thoughts to pass the limits of the many illusory certainties so frequent nowadays.

The concept of “maybe” evokes the idea of otherness, of a different identity concealed beneath the surface of complicated thought and language which do not consent the perception of the true sense of things.

The artistic statement of Federico Maddalozzo – the Maybe of his five works realised from 2005 to date – hold within the idea of limit and its breakdown through the strategy of desire. The artist’s desire is raised in the search of a “third dimension” for light and colour, transcending the primacy of shape and technique to the universe of the immaterial and the invisible.

The light is pure energy, transitory matter which, in its immateriality and tactile inconsistence, pervades the world, moulds it, becomes its substance. The action of light in space, its modification of reality thanks to physical refractions and variations, modifies the view of things denying the immutability of the world.  

Light is consubstantial to works of art, it is part of its sensory and emotional experience. It is imagination, knowledge.

In an era dominated by technocracy and the dematerialisation of the world, light is always more a tool and always less revelation, knowledge. Federico Maddalozzo inverts this sense of things and lifts light / colour to a new medium of representation of reality. His analysis of the identity of pure colour and the ontology of vision is used played on the limit of  reality and the virtual, of truth and illusion, until that same limit is forced to deny the meaning of codification as a language.  

The limit represented in his works is the conceptual cage in which we categorise the world and on which we anchor our judgement. A cage born from the grammatization of gestures and technique which distances man from direct experience of the world.


The objects’ morphology and consistency changes according to the colour tone they are made of. The colour in turn, interacts with the natural and / or artificial light of the space where the object is placed, as too with shadows. This phenomenology of the light is the process to which the artist subjects his objects of industrial nature to make the public sensitive to the light / colour experience and its knowledge. A process qualified to contradict the electronic codification as a system of representation – which dematerialises things – and the negation of identity through the flattening of reality. The colour codes are a superstructure of technique, a limit between man and experience of the world.

A steel I beam painted in a yellow car paint chosen from the range of RAL car colours (work Maybe #03) and a fluorescent coloured container for paper sheets, also chosen from RAL colours, are three-dimensional geometric shapes which do not consent a chromatic classification according to the reference codes. The light projected onto them creates shadows and reflections which contradict the unicity of the colour and consequently its reference code.

The human eye cannot distinguish more than two hundred colours, whereas the computer makes available more than two million virtual tones which represent a physically inexistent world. This second reality is represented by the piece Maybe #05, a big wall covered in hundreds of Pantone cardboard pairs protruding and inclined in opposite directions – Pantone being a well-known colour matching system used in many industrial sectors. The light projected on the wall reflects two variants for each cardboard colour, denying the unequivocal exactness of the reference codes. The final effect is of a space moulded in its volumes by the light / colour of the hundreds of cardboards, destabilising in its chromatic play but at the same time generating emotions and a unique, real experience.

A code cannot represent the third dimension of things, that reality which is at the limit between artificial truth affirmed by an abstract numeric language and the physical, sensorial relationship existing between light/form, colour/matter.

Pantone, RAL and other colour codification systems universally rule the representation and the artificial reproduction of colour.

Today’s landscape could be summarised in a long sequence of codes given by thousands of colours of houses, cars, clothes, signals, posters in the environment. Another Matrix without substance, without differences, and above all without emotions. But, paraphrasing Derrida, art takes language to its extreme limits in order not to lose the nature of the world.


Codici, Matrix e false verità
di Marinella Paderni


“noi non siamo a casa
nel mondo interpretato”
Elegie Duinesi, R.M.Rilke


Maybe ... forse. Una piccola asserzione che, come un sussurro, insinua la dimensione del dubbio, della discussione, schiudendo la mente a nuove realtà. Una parola enigmatica che sancisce la fine di una certezza e legittima il pensiero a varcare il limite delle tante illusorie sicurezze così frequenti oggi.

Il concetto del “forse” evoca l’idea di alterità, di un’identità differente celata sotto la superficie di sovrastrutture di pensiero e di linguaggio che non consentono la percezione del senso vero delle cose.  

L’enunciato artistico di Federico Maddalozzo – il Maybe delle sue cinque opere realizzate dal 2005 ad oggi - racchiude dentro di sé l’idea del limite e della sua rottura ad opera di una strategia del desiderio. Il desiderio dell’artista si sublima nella ricerca di una “terza dimensione” per la luce e per il colore, trascendendo il primato della forma e della tecnica sull’universo dell’immateriale e dell’invisibile.

La luce è pura energia, materia effimera che nella sua immaterialità e inconsistenza tattile pervade il mondo, lo plasma, ne diventa sostanza. L’azione della luce nello spazio, il suo modificare la realtà grazie a rifrazioni e variazioni fisiche, modifica la visione delle cose smentendo l’immutabilità del mondo.

La luce è consustanziale all’opera d’arte, è parte della sua esperienza sensoriale e emotiva. Essa è immaginazione, conoscenza.

In un epoca dominata dalla tecnocrazia e dalla smaterializzazione del mondo, la luce è sempre più strumento e sempre meno rivelazione, conoscenza. Federico Maddalozzo inverte questo senso delle cose e eleva la luce/colore a nuovo medium di rappresentazione della realtà. La sua analisi dell’identità del colore puro e dell’ontologia della visione è giocata sul limite del reale e del virtuale, della verità e dell’illusione, fino a forzare quello stesso limite e smentire il senso della codificazione come linguaggio.

Il limite rappresentato nelle sue opere è la gabbia concettuale entro cui cataloghiamo il mondo e ancoriamo il nostro giudizio su di esso. Una gabbia partorita dalla grammatizzazione dei gesti e dalla tecnica, che allontana l’uomo dall’esperienza diretta del mondo.







Gli oggetti cambiano morfologia e consistenza a seconda delle tonalità di colore di cui sono fatti. Il colore interagisce a sua volta con la luce naturale e/o artificiale dello spazio in cui è collocato l’oggetto, come pure con le ombre. Questa fenomenologia della luce è il processo a cui l’artista sottopone i suoi oggetti di natura industriale per rendere sensibile al pubblico l’esperienza della luce/colore e la sua conoscenza. Un processo atto a contraddire la codificazione elettronica come sistema di rappresentazione – che smaterializza le cose - e la negazione dell’identità tramite l’appiattimento della realtà. I codici colore sono una sovrastruttura della tecnica, un limite tra l’uomo e l’esperienza del mondo.

Una putrella di acciaio colorata con una vernice gialla per automobili scelta dalla gamma colori per auto della RAL (l’opera Maybe #03), un contenitore per fogli dal colore fluorescente sempre scelto dalla RAL sono forme geometriche tridimensionali che non consentono una classificazione cromatica secondo i codici di riferimento. La luce proiettata su di loro crea riflessi che contraddicono l’unicità del colore e di conseguenza il suo codice di riferimento.

L’occhio umano non riesce a distinguere più di duecento colori, mentre il computer mette a disposizione oltre due milioni di tonalità virtuali che rappresentano un mondo fisicamente inesistente. Questa seconda realtà è rappresentata nell’installazione Maybe #05, una grande parete ricoperta da centinaia di coppie di cartoncini Pantone sporgenti  e inclinati in maniera opposta – la Pantone è una nota cartella colori utilizzata in molti settori industriali. La luce proiettata sulla parete riflette due varianti per ogni colore dei cartoncini, smentendo l’esattezza univoca dei codici di riferimento. L’effetto finale è di uno spazio plasmato nei suoi volumi dalla luce/colore delle centinaia di cartoncini, destabilizzante nei suoi giochi cromatici ma al contempo generatore di emozioni e di una esperienza unica, reale.

Un codice non può rappresentare la terza dimensione delle cose, quella realtà che sta al limite tra l’artificiale verità asserita da un astratto linguaggio numerico e il rapporto fisico, sensoriale, esistente tra luce/forma, colore/materia.  

Pantone, Ral e altri sistemi di codificazione regolano universalmente la rappresentazione e la riproduzione artificiale del colore.

Il paesaggio di oggi potrebbe essere sintetizzato in una lunga sequenza di codici dati dalle migliaia di colori di case, auto, indumenti, segnaletiche, manifesti presenti nell’ambiente. Un altro Matrix senza sostanza, senza differenze, e soprattutto senza emozioni. Ma, parafrasando Jacques Derrida, l’arte porta il linguaggio ai suoi limiti estremi per non smarrire la natura del mondo.